Vi prego di leggere questo articolo e di pensare al popolo tibetano, al loro rosso porpora, alla loro dignità, alla loro educatissima religione, alle facce dei loro bambini e ai meravigliosi posti che hanno saputo conservare e arricchire.
L'INDIGNAZIONE internazionale per il calvario del Tibet, le manifestazioni in tutto il mondo davanti alle ambasciate cinesi non impressionano i leader di Pechino. Con la feroce repressione della rivolta, che ora si estende a tutte le zone del "Tibet etnico" amputate dopo l'invasione militare del 1950, il regime cinese corre un rischio calcolato.
Il presidente Hu Jintao e il suo gruppo dirigente sono convinti che nelle relazioni con il resto del mondo pagheranno un prezzo modesto per l'orrore di questi giorni. È probabile che abbiano ragione. La Cina è un colosso che le altre nazioni trattano con i guanti. Tra i governi occidentali le logiche della realpolitik sembrano prevalere sulla solidarietà umanitaria. Perfino una potenza ultraterrena come la chiesa cattolica brilla per i suoi silenzi.
Ieri il papa ha condannato le guerre nel mondo ma non ha parlato del Tibet. Il Vaticano ha in corso un negoziato per riallacciare i rapporti diplomatici con Pechino; esita a prendere una posizione sul Tibet che potrebbe compromettere questo storico obiettivo.
In fatto di cautela è una bella gara. Nelle stesse ore in cui stava nascendo la protesta a Lhasa, Washington annunciava di aver tolto la Repubblica popolare dalla lista nera dei dieci paesi accusati dei peggiori abusi contro i diritti umani. Un infortunio, una coincidenza infausta ma tutt'altro che sorprendente.
Anche se gli Stati Uniti considerano la Cina come il rivale strategico in grado di sfidare la loro egemonia planetaria, negli ultimi anni hanno accresciuto la loro dipendenza dal gigante asiatico. Hanno goduto dello "sconto cinese", l'invasione di prodotti a basso costo che hanno limitato l'inflazione e hanno sostenuto il potere d'acquisto dei consumatori. L'esplosione del debito americano è stata finanziata da Pechino: la banca centrale cinese "ricicla" l'immenso attivo commerciale acquistando buoni del Tesoro Usa; ha le casseforti più ricche del pianeta con 1.550 miliardi di dollari di riserve valutarie.
Nella crisi che scuote il sistema bancario mondiale, gli americani sono stati i primi ad accogliere a braccia aperte gli investitori cinesi come "cavalieri bianchi" nel capitale dei loro istituti di credito, da Bear Stearns a Morgan Stanley. Non è facile ora fare la voce grossa contro chi siede nei tuoi consigli d'amministrazione.
Anche la politica estera di Washington ha qualche debito. Se la Filarmonica di New York ha potuto giocare alla "diplomazia del violino" a Pyongyang, è perché la Cina ha convinto il vassallo nordcoreano a congelare (per ora) i suoi piani nucleari. Avendo due conflitti aperti, con sollievo Bush ha depennato il dittatore Kim Jong Il dall'"asse del male".
Gli europei non sono da meno. Ricordiamo l'ultimo viaggio del Dalai Lama nel nostro continente. Salvo Angela Merkel, i governi europei evitarono di riceverlo. Non fece eccezione quello italiano, e neppure Benedetto XVI: tutti preoccupati di non irritare Pechino. La Repubblica popolare è diventata ormai il principale partner commerciale dell'Europa, scalzando gli Stati Uniti da un ruolo storico che avevano avuto per mezzo secolo.
Al di là delle periodiche minacce protezioniste, agitate da politici demagoghi in cerca di voti, nessuno può fare seriamente a meno del made in China. Nei prodotti hi-tech come i computer e i telefonini la Cina è diventata un quasi-monopolista, indispensabile e insostituibile. Le fabbriche elettroniche e informatiche sono state in larga parte smantellate dai paesi europei e non torneranno indietro.
Se smettessimo di comprare cinese tutto si fermerebbe, perché non siamo più in grado di produrre molti beni essenziali. È sintomatico che di fronte alla tragedia del Tibet l'unico dibattito in Occidente è sull'opportunità di boicottare le Olimpiadi di Pechino. È un'ammissione implicita: il solo danno che possiamo immaginare di infliggere alla Cina è sul piano simbolico.
Naturalmente l'interdipendenza è reciproca. Il regime cinese sa che il formidabile sviluppo economico degli ultimi anni è stato trainato dalle esportazioni. Il presidente Hu Jintao e la nuova leva di dirigenti tecnocratici non sottovalutano l'importanza delle buone relazioni con il resto del mondo. Ma hanno una loro visione delle priorità e delle poste in gioco. Per quali ragioni la Cina tiene così tanto al Tibet, come si spiega la determinazione con cui controlla questa immensa nazione montagnosa, semidesertica e per lungo tempo inaccessibile?
In primo luogo, storicamente, per il ruolo di protezione strategica in vista di un possibile conflitto con l'India o altre potenze presenti nell'Asia centrale (dalla Russia agli stessi Stati Uniti). Più di recente per la scoperta di giacimenti di energia, materie prime e metalli rari che sono risorse preziose per l'industria delle zone costiere. Una volta riscritti i manuali di storia, dopo aver indottrinato generazioni di cinesi sul fatto che il Tibet è "sempre" stato loro, come Hong Kong e Taiwan, ecco subentrare il nazionalismo, la memoria dell'onore ferito dalle aggressioni imperialiste dell'Ottocento e del primo Novecento.
Infine vi è la battaglia sul controllo egemonico della religione. Ci sono 150 milioni di buddisti praticanti in Cina, incoraggiati dallo stesso regime a riscoprire nei culti antichi le radici di un'identità nazionale. Pechino intende affermare che ogni manifestazione religiosa è ammissibile solo se sottomessa alla supremazia del regime comunista; perciò un leader buddista autonomo come il Dalai Lama è il Male assoluto, l'avversario con cui non si scende a patti. Il regime cinese è disposto a subire un peggioramento temporaneo della sua immagine nel mondo, pur di affermare che il Tibet è una questione domestica, e che nel suo nuovo status di superpotenza globale Pechino non accetta lezioni di diritti umani o altre "interferenze".
Certo quel che sta accadendo manda in frantumi la visione di una confuciana società armoniosa, che Hu Jintao predica come modello della convivenza interna e delle relazioni internazionali. A lungo termine la Cina dovrà accorgersi che le ambizioni neoimperiali devono reggersi anche sul "soft power", la capacità di esportare fiducia, di proiettare valori. Ma nel lungo termine chissà cosa sarà rimasto del popolo tibetano. Per ora le ragioni del cinismo, della prudenza e dell'opportunismo sono destinate a prevalere.
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2 commenti:
Trovo assolutamente agghiacciante quello che sta succedendo in Tibet (da anni ormai).
Un Popolo deve mantenere le sue radici e la sua cultura!!! Inoltre la cultura tibetana è così importante e così unica che dovrebbe essere tutelata con più determinazione.
Il potere però fa male alle persone, le corrode dentro e causa questo ed altro.
Dovremmo riflettere e cercare di cambiare la situazione, partendo magari dai nostri piccoli comuni o quartieri.
Purtroppo non vedo soluzione. Come dici tu stesso, la Cina è divenuta intoccata ed intoccabile a livello planetario.
Nel passato più remoto a dettar legge erano le armi, nel passato più recente e nel presente è il quattrino, ma il succo del discorso è sempre rimasto quello da millenni: il forte sopravvive, il debole soccombe.
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